Si intitola Qui il secondo interessante album dei genovesi Rebis. Sì, ma “Qui” dove, si verrebbe da chiedere? Perché questo deittico spaziale davvero si può declinare in tanti “qui” sparsi lungo la linea che da Genova porta al Maghreb, alla Siria e alla Palestina. In un periodo in cui si torna a parlare di muri da costruire Alessandra Ravizza e Andrea Megliola, invece, vogliono gettare ponti. Ponti tra culture, lingue e religioni diversi eppure così vicini. D’altronde già ‘rebis’ è un termine che afferisce al mondo alchemico. In sostanza si tratta di quel processo in cui maschile e femminile si decompongono per formare una nuova sostanza.
Se questo tentativo di unire mondi lontani era già presente nel primo Naufragati nel deserto, in Qui diventa un vero e proprio impegno programmatico.
Notevolissimo è il lavoro musicale portato avanti dal duo grazie all’apporto di musicisti di straordinaria caratura quali Edmondo Romano (alle prese con – tra gli altri – mizmar, sassofono, clarinetto, santur, shanay), Salah Namek e Matteo Rebora. C’è molto mondo arabo ma anche inserti più “occidentali” come nella splendida title-track in cui si parla di spazi (interiori?) da riabitare e in cui si gioca con grande maestria sull’utilizzo degli avverbi.
A proposito di lingua va poi rimarcato l’uso, quasi senza soluzione di continuità, dell’italiano, dell’arabo, del wolof (lingua del Sengal) e del francese. Addirittura in Ma maison abbiamo un inserto rap in inglese del nigeriano Natty Scotty. Altro che ponti, il brano parla all’opposto di case (maison) in cui si lasciano finestre aperte sul mondo per potervi entrare, perché alla fine “abitiamo un punto nello spazio,/ il futuro è uno, è nostro ed è comune,/ siamo qui per costruire il nostro posto/ e affermare il diritto all’esistenza”.
Detta così potrebbe apparire Qui un disco di pace e serenità ritrovata. Nulla di tutto ciò, certo c’è anche la felicità dell’amore (Vincimi con i tuoi occhi… che pure utilizza il termine ’vincimi’!) o Je reviendra en automne (che riprende il topos delle stagioni), ma in generale il disco deve essere letto come una sorta di concept album sul tema del viaggio alla ricerca del proprio posto del mondo, di un luogo, di una terra dove poter vivere qui (appunto). Non è un caso, quindi, che troviamo anche testi particolarmente crudi, pur nella grande capacità poetica dei due, in cui si canta di terre strappate a forza e di soldati pronti ad uccidere persino i bambini (il che simbolicamente rappresenta l’uccisione di una progettualità). Si veda in questo senso Goodbye Amal liberamente tratto dal famoso romanzo Ogni mattina a Jenine della scrittrice americana-palestinese Susan Abulhawa e Partoriscimi di nuovo tratta da una poesia del palestinese Mahmoud Darwish.
Un disco forse non semplice al primo ascolto ma che dimostra davvero un grande balzo in avanti rispetto al comunque interessante disco d’esordio. Un disco non semplice per i suoni e per i temi trattati. Ma che di certo ha il dono di aprirci altri mondi, di farci riflettere e perderci nella congiunzione degli opposti.